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venerdì 19 luglio 2013

LA POESIA ERA E RESTA IL LIEVITO DEL MONDO

Di Andrea Giampietro

Nella prefazione alla sua prima raccolta di poesie, “Il leone non mangia l’erba” (Remo Croce Editore, 1974), il grande scrittore Aldo Palazzeschi, oltre a lodare giustamente il suo talento, scrive di lei: «Abita in un sottoscala vicino a Stazione Termini, in una topaia in mezzo a libri e pochi quadri che gli hanno regalato gli amici pittori. Non sa, non vuole sapere che le case umide e senza luce sono un danno anche se favoriscono la meditazione e la concentrazione. Mi ricorda, per certi aspetti, la follia del povero Campana». Quanto è stato duro per Dante Maffia affermarsi nell’ambiente letterario italiano, e soprattutto in quello editoriale, che risponde principalmente alla logica dell’interesse, del profitto, ed è sottomesso ai giochi di potere interni alle case editrici? La purezza del suo talento, la solidità della sua passione, il vigore della sua determinazione, sono riusciti a farle vincere qualsiasi ostacolo, a farle sostenere ogni sacrificio?
“Non ho mai saputo bene in che cosa io abbia potuto ricordare ad Aldo Palazzeschi “la follia del povero Campana”. Non credo l’ambiente del sottoscala in cui vivevo; forse il mio comportamento che non badava alle comodità, il mio preferire acquistare un libro anziché mangiare, il mio essere anarchico in ogni direzione, soprattutto letteraria. Non accettavo le graduatorie imposte dall’alto, i “suggerimenti” dei recensori ufficiali, vagavo per Roma disperato ed esaltato, in preda ad angosce e a veri e propri deliri e ogni tanto parlavo coi treni, a Stazione Termini, che andavano verso la Calabria dove c’era il mio mondo, la mia infanzia, mia madre e mio padre morti giovani. Questo mio essere libero e a volte irrispettoso ovviamente non mi ha giovato a “fare carriera”. Non piegarsi ai dettati degli impiegati della letteratura, non accettare tutto per oro colato mi rese antipatico e pericoloso. Avevo, grosso modo, gli stessi atteggiamenti di Dario Bellezza, con cui era nata una solida amicizia, ma a lui perdonavano l’irriverenza e le incursioni sbadate o goliardiche, cattive o colleriche; a me no, e a torto o a ragione io attribuii queste due misure diverse all’omosessualità di Dario. Tuttavia non so se sia stato duro affermarsi nell’ambiente letterario. Io non miravo a nessuna carriera (in poesia non c’è, non ci sarà mai!), godevo di scrivere (e soprattutto di leggere), godevo, dopo avere pubblicato il libro con il libraio Remo Croce per il quale organizzavo le serate nella sua libreria, dei giudizi che mi arrivavano per posta. Soprattutto una cartolina postale mi esaltò oltremodo, a firma di Mario Praz, diceva che ero riuscito a mettere a segno parecchi colpi ne Il leone non mangia l’erba. Insomma, vivevo la letteratura come vita e mi bastava, anche se a un certo punto mi resi conto d’essere guardato a vista, come se fossi un pericolo che potesse portare un qualche dissesto all’apparato, ma anche quando incontravo poeti e scrittori io li vivevo attraverso i loro scritti e non per il loro carattere e per i loro giochi di potere e ciò forse li “smontava” anche se la diffidenza dell’“estraneo” restava”.
La poetessa, o meglio, il poeta (come lei stessa amava essere definita) Anna Achmatova, in una celebre poesia, riferendosi alla sua Musa scriveva: «Che cosa sono onori, libertà, giovinezza,/ di fronte all’ospite dolce/ col flauto nella mano?». Mi piacerebbe che lei descrivesse lo stato di grazia vissuto – al contempo sofferto e goduto – dal Poeta, che fa di lui un essere umano d’eccezione, destinato, che sia per vocazione o per condanna, a un destino diverso e forse per questo più vero.
“C’è una sorta di mitologia creata dai poeti sul proprio dono. Da fuori questo dono spesso diventa stravaganza, sconfitta, demenza, pazzia e dunque le parole della grande poetessa russa servono a darci l’idea d’uno stato di grazia molto personale che soltanto gli illuminati posso concepire e accettare, credere. Mi domando che cosa sia e che cosa sarà il poeta nella società sempre più tecnologica a cui ci stiamo avviando. Internet è una democrazia così esasperata che con estrema facilità porta al libertinaggio e al pareggio di bilancio delle menti. Tutti possono esistere con i loro versi e così l’intasamento è bello e fatto, compiuto. Come discernere, come salvarsi dalla valanga del tritume, dell’ovvio, della finta letteratura? Nelle scuole, tra l’altro, la poesia è un optional faticoso e “inutile” e non ci si educa più a sentire l’eco fascinosa dei versi che condensavano fiumi di emozioni. Ora si bada al sodo, che non ho capito veramente che cosa sia, e si va avanti privi di qualsiasi riferimento che abbia attinenza con lo stupore. Tutto è piatto, grigio, privo di farfalle e di arcobaleni e perciò il poeta vero rischia d’essere scambiato per un marziano che arriva per scompigliare le carte del risaputo e dell’acclarato. Davvero il poeta è un essere eccezionale? O una vittima che tenta disperatamente di avvisare l’uomo che le emozioni sono il sale dei rapporti umani creando così diffidenza e scomodità? Non è casuale se nella Milano da bere (magari l’acqua inquinata dei Navigli) sia invalsa l’idea che la poesia debba essere catalogo di oggetti e di sbiadite fotografie del quotidiano e non più stupore che cerca il segreto del vivere, del godere, del soffrire, dell’amare e del morire”.                                                               
In una delle sue ultime raccolte di versi, “La biblioteca d’Alessandria” (edita da Lepisma, e giunta ormai alla sua quarta edizione), lei immagina una serie di epigrafi degli scrittori che sono bruciati allegoricamente insieme ai loro libri nel rogo di quello che fu il più grande tempio culturale dell’antichità; una sorta di “Spoon River” in cui questi autori parlano come dall’aldilà, lamentando la dipartita dei loro scritti, che poi ha rappresentato la perdizione della loro anima. Oggi siamo arrivati a questo? Insomma, la memoria della grande letteratura è davvero finita al macero, e un autore contemporaneo che, forte della propria eredità classica, voglia proporre un linguaggio nuovo, si ritrova a non avere voce nell’attualità, limitandosi per questo a far sentire soltanto la propria eco, come se non potesse operare che in un oltretomba esistenziale?
“Sì, purtroppo siamo a questo e non per colpa della letteratura, della poesia, degli scrittori veri, ma per colpa del potere editoriale che corre smodatamente e con aperti atteggiamenti da ruffiano appresso all’attualità. È come se avessimo saltato un’epoca interamente (dall’antico direttamente al post moderno saltando a pie’ pari il moderno) per giungere a un’altra nella quale mancano le coordinate che possano suturare e dare l’esatta misura del concatenamento e degli sviluppi. Ci sono gravi colpe dei velleitari che, chissà perché, voglio essere poeti a tutti i costi senza esserlo. E ciò dissesta la sostanza del mondo, perché guasta il senso della verità e distorce i rapporti della parole con l’uomo. Un problema complicato e complesso, che se no avverrà, come mi piace dire, un clamoroso errore, non avrà soluzione se non catastrofica. Perché la poesia, intesa in tutta la sua estensione e profondità, è il sale della terra, l’unica lente capace di far vedere l’esatta configurazione del polline che anela alla vita”. 
Oltre ad essere poeta, narratore, saggista, traduttore, critico d’arte, giornalista, lei è stato docente universitario. Durante il Regno d’Italia, in epoca risorgimentale, ad esser nominato Ministro dell’Istruzione fu nientemeno che il grande critico letterario Francesco de Sanctis. Sappiamo bene da chi sia stata ricoperta questa carica negli ultimi anni, da nomi che non fanno per niente onore alla storia e alla dignità nazionale, e che hanno paurosamente contribuito a corrompere il livello d’istruzione dei nostri giovani. Lei non crede che un serio e profondo investimento da parte della politica nella scuola pubblica andrebbe a dare quel sostegno di cui più che mai oggi la cultura, l’arte e la poesia del nostro Paese necessiterebbero?
“Non ci sono dubbi. Negli ultimi decenni c’è stato un patto diabolico per ridurre la portata della scuola. A pensarci bene sembra un patto massimalista organizzato solitamente dai regimi totalitari che devono far piombare i popoli nell’ignoranza per poterli manovrare a piacimento del potere. Ripeto spesso, nelle mie conversazioni in pubblico (librerie, associazioni, scuole) che tutto dipende dalla scuola ed è la scuola che forma, che suggerisce, che accende, che determina le sorti di un popolo, che crea le strutture manageriali di un Paese. A cominciare dai vari professionisti, medici, ingegneri, impiegati, dirigenti, professori, eccetera. Dunque la scuola come fonte, come partenza; l’atletica ci insegna che se si sbaglia la partenza non si arriva mai primi”.
 Cosa direbbe a un giovane poeta affinché non perda fiducia nel proprio cammino? Vale ancora e sempre la pena combattere e soprattutto vivere per la poesia?
“Dare consigli ai giovani è sempre un grave errore. Bisogna dare gli esempi. Comunque tutti i cammini hanno sorprese, inghippi, scoscendimenti e radure. Bisogna incamminarsi e superare gli ostacoli. Quanto a vivere per la poesia è un problema che soltanto i singoli possono stabilire. Io però direi a tutti di vivere con poesia, guardando sempre che cosa sta dietro e attorno alle cose, agli eventi, ai gesti, alle azioni. Vivere con poesia significa tenere conto della sensibilità degli altri, avere rispetto delle idee degli altri, suggerire di saper rispettare un fiore (la metafora è da allargare a tutto), come diceva Erich Fromm, godendone il profumo e non cogliendolo e buttandolo, ma trapiantandolo”.
Mi piacerebbe, per chiudere, che lei ci offrisse un ricordo di alcuni grandi autori che hanno fatto parte del suo percorso umano e professionale: Aldo Palazzeschi, Dario Bellezza e Giorgio Caproni.
“Una giovane professoressa dell’Università di Tor Vergata di Roma ha intenzione di curare un volume dei mie ricordi con i grandi autori con cui sono stato amico o comunque con cui ho avuto dei rapporti umani o professionali. Così sono stato costretto a ripercorrere il cammino delle tante occasioni italiane ed estere per ricordare incontri importanti e conversazioni. Certo, Palazzeschi, con la sua umanità dolce, Bellezza con i suoi umori indomiti, Caproni con la sua musicalità umana, ma anche Jorge Luis Borges, Han Suyn, Rafael Alberti, Josif Brodskij, Vargas Llosa, Elsa Morante, Sciascia, Calvino, Moravia, Carlo Levi, Primo Levi… Un elenco infinito, perché io, partito per Roma da un paesino sperduto della Calabria, che contava meno di duemila abitanti, arrivai assetato di conoscenze e avido di frequentare, almeno di sfiorare i miti che mi avevano riempito il cuore e la mente. Non mi fu difficile, circa mezzo secolo fa esisteva ancora la civiltà artistica e letteraria e se avevi delle carte da giocare, se eri autentico, ti veniva data retta. Quel mondo ormai è sparito per dare posto al chiacchiericcio giornalistico e a una poesia che non è nemmeno, a volte, versificazione, esercitazione letteraria. Un segno dei tempi di cui prendere atto, ma senza farsi trascinare nella melma, nel gorgo insensato delle pattumiere issate come bandiere. La poesia era e resta il lievito del mondo. Soltanto che adesso bisogna scovarla in posti impensati, ma è pronta ad esplodere alla prima buona occasione per ridare al mondo la faccia pulita in modo che gli uomini possano ritornare a stupirsi ogni mattina dell’alba e stupirsi del mistero delle semplici cose”. 


L'autore: Andrea Giampietro

Andrea Giampietro nasce in Abruzzo il 3 dicembre 1985. 
Dopo aver terminato gli studi liceali, comincia un percorso di studio da autodidatta, dapprima interessandosi di psicoanalisi freudiana, e in seguito quasi esclusivamente di letteratura e soprattutto di poesia. Nel marzo 2010 la casa editrice romana Lepisma pubblica la sua prima raccolta di versi, "Il paradiso è in fondo", presentata da illustri poeti quali Dante Maffia (autore della prefazione) e Maria Luisa Spaziani. Nel 2012 viene pubblicata la sua nuova silloge poetica, "Di notte a luna spenta" (Edizioni Il Foglio). Attivo soprattutto come traduttore letterario, realizza versioni italiane dei grandi poeti dell’Ottocento francese (Baudelaire, Verlaine, ma soprattutto "Il battello ebbro" di Rimbaud e "Il pomeriggio d’un fauno" di Mallarmé). Dall'inglese traduce Shakespeare e Edgar Allan Poe, ma soprattutto il poema "La ballata del carcere di Reading" di Oscar Wilde, pubblicato nel marzo 2012 da Edizioni Libreria Croce. Dal dicembre 2012 collabora ufficialmente con la rivista letteraria online "l'EstroVerso"  http://www.lestroverso.it/



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