Hai vissuto
come hai voluto, lontano da noi,
dalle nostre
normali abitudini, belle o brutte.
Non ci sono
state colpe.
Solo tue
volontà, tuoi sogni per l'ignoto, trasformati
in solitudini,
dolci o amare, che pagavi a caro prezzo.
Tu ci dicevi
che stavi bene.
Eri allegro
come un bambino, quasi sempre,
nei nostri
incontri fugaci e mendaci.
Le nostre
domande erano inutili, anche quelle più dure,
piene di
preoccupazione e di affetto per te.
Il tuo sorriso
disarmante trascendeva
da ogni nostra
negatività.
La tua fatica a
parlare di verità, di amore,
che altri non
ti hanno mai dato, era evidente.
A te bastava di
godere di momenti anche lunghi, ma erano fatui,
opalescenti e
confusi e rendevano la tua solitudine
unica,
esclusiva e tu ci sguazzavi.
Sei stato
sempre solo, anche quando
credevi d'esser
in compagnia.
Lo so, che
questa l'hai cercata, con magri sotterfugi
ai quali ti eri
abituato. Che dopo erano pranzi e cene
con “amici”,
dicevi tu; ma eri troppo preso
dall'ebrezza di
un piacere serotino,
coperto da
quelle ombre grigie
delle quali non
sei mai riuscito a liberarti.
In trent'anni
non ci hai dato uno straccio di risposta
a tutte le
nostre domande.
Ci hai lasciato
nel vuoto più infinito,
in un dolore
immenso che tu stesso ci hai procurato,
incosciente ai
richiami che ti facevano pure
altre persone e
non solo noi.
Non hai curato
il tuo spirito, il tuo atteggiamento
a proporti, e
sì che di gente ne hai conosciuta!
Ma io, noi,
tuoi fratelli, tuoi nipoti, sappiamo, perché siamo coscienti,
del tuo antico
dolore, dei tuoi pasticci,
anche
sentimentali, compreso quello ufficiale, di marito.
Quel dolore,
che forse tu non avevi ancora sentito,
é stato come
una cambiale a lunga e sconosciuta scadenza,
che ti sei
trascinata per decenni, ma con una data sicura.
Non te ne
accorgevi, caro mio, perché il mondo
(piccolo
piccolo) da cui credevi di essere avvolto
era fatto di
carta straccia che prendeva fuoco
ogni volta che
tu accendevi una di quelle nostre maledette
sigarette.
L'effimero si
era impadronito di te.
Ma la tua vita,
come la nostra, é fatta di colonne di granito
sulle quali
dobbiamo stare, in equilibrio pure,
pena il
precipizio.
Quel baratro
ora si é aperto e tu ci sei entrato senza un graffio,
forse non hai
sofferto
e se é vero,
meglio così!
Ci hai lasciato
nel bordo, ciechi e muti
e non riusciamo
a metterci un tappo.
Le lacrime, che
pure arrivano, non servono a nulla.
Si dissolvono
nel niente
e non riescono,
purtroppo e nemmeno,
a calarsi su un
lembo del tuo corpo.
Ora, e sono
passate quasi ventiquattrore,
forse stai
meglio perché non ti farai più male;
non penserai
più, non sarai costretto a rispondere
a quelle nostre
domande.
Ti sentirai più
libero, ne sono e ne siamo sicuri,
e non avrai più
pentimenti o ripensamenti.
E' vero, tu non
eri abituato a pensare.
In quell'altra
vita, invece, potrai fare di tutto,
tanto nessuno
se ne accorgerà!
E in questa tua
libertà noi ci sentiremo più legati,
meno liberi,
perché tu ci hai costretto a questo dolore
e non ne
avevamo bisogno.
Queste parole
che ti ho voluto dedicare
non sono
soltanto mie, sono di tutti noi,
fratelli e
nipoti, e ti ricorderemo così come eri,
come volevi per
forza apparire,
con la tua
bonomìa, la tua disponibilità infantile,
la tua poca
attenzione alla tua persona,
che, giocoforza,
ora che non ci sei più,
ti dobbiamo
perdonare!
Ciao!
Gavino Puggioni
edita Nel silenzio dei rumori
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