benvenuti

Questo blog è di Danila Oppio, colei che l'ha creato, e se ne è sempre presa cura, in qualità di webmaster.

domenica 22 aprile 2012

Il porto di Pochino





Era il primo giorno di dicembre di un anno a venire, forse il 3000 d.c. ed ero diretto, col monopattino, verso il vicino porto di Pochino dove, da notizie stellari, avevo appreso che una grande nave di pellegrini avrebbe salpato, nottetempo, verso le isole sconosciute del Puntino Nero, in pieno oceano pacifico.
Pochino era ormai diventato un piccolo paese, abitato da anime disperate in attesa di un avvenire migliore.
Prima, anche mille anni addietro, era stata una città quasi industriosa, con molti artigiani, molti barcaioli, molti fannulloni con qualcuno che si occupava anche di politica, ma senza grandi convinzioni e principi, solo grandi affari e interessi personali, com'era già accaduto da altre parti.
Era rimasta, anche, indelebile nel tempo, una grande macchia oscura di terreno inquinato da scorie metalliche e chimiche, velenose alla terra e all'aria, che vi avevano trovato triste alloggio ad affitto  zero e danni incal
colabili alla salute di quegli abitanti che, con esse, c'avevano convissuto per
intere generazioni
Ma ora, da allora, non era rimasto più niente se non una vecchia e solida
 torre, delle case diroccate e poco abitate, vie e viali senza nome, senza
alberi, solo incroci che non servivano a niente, non ci passava più nessuno.
 Chi sapeva ancora pregare trovava rifugio e fede in una antichissima basilica
sopra un colle che voleva essere un monte ma non lo era. C'erano tante
 croci a ricordare un dio scomparso, a volte generoso, a volte impietoso,
ognuno diceva la sua.
A Pochino, però, era rimasto il porto, non quello piccolo, ma quello grande
 grande, fatto di cemento e granito, di lampioni elettronici che si accendevano
 quando qualcuno si avvicinava e si spegnevano quando nei dintorni non circolava
anima viva.
Era talmente grande che l'occhio poteva spaziarvi tranquillamente, in solitudine,
 tanto di navi o petroliere, di transatlantici o barche a vela enormi, nere
o bianco-nere, con capitani d'industria nostrani battenti bandiere di altri piccoli
 mondi, non v'era traccia alcuna.
Maree di gabbiani a riposo s'alternavano nel silenzio più assoluto, i loro movimenti
 simili a disegni animati, proprio come quelli dei cartoni di una volta, in televisione,
 ormai spariti da tutti gli archivi di conoscenza umana.

In quest'ultimo millennio tutto s'era polverizzato, i ricchi sempre più ricchi
 s'erano trasferiti in scatolette di alluminio trasparente e da li continuavano a rubare,
 ma solo pane e acqua per la sopravvivenza, mentre i poveri erano rimasti nella
loro peggiore povertà, abitanti di quartieri dismessi, in preda alle ombre del passato,
 in attesa di un altro messia che non si decideva a tagliare le acque e lasciar loro
 almeno qualche pesce.

Il mio monopattino aveva quattro ruote motrici, due davanti e due dietro, e filava
 che una bellezza soprattutto in terra battuta ed aveva anche una piccola dinamo
che dava luce ad una lampadina regolabile, posta al centro del manubrio aerodinamico,
 provvisto, alle sue estremità, di guanti anti-urto-freddo. Correvo assai in discesa,
in pianura consumavo scarpe a ripetizione, visto le spinte e le accelerazioni
 che dovevo imprimergli per raggiungere le mie mete preferite.

Arrivai a Pochino nel tardo pomeriggio, attraversando un lungo vialone disalberato,
abitato da cani randagi, gatti consimili, qualche pecora e qualche bovino scarnito,
questi ultimi graziati da un gruppo di disoccupati accecati dalla polvere, dalla
 fame e dalla mancanza solita di lavoro. Entrai nel porto dopo aver attraversato,
come fossero a guardia, lunghi ed arrugginiti cancelli, lasciati perennemente aperti
 per favorire l'afflusso di passeggeri, ormai assenti da circa mille primavere.
Io facevo parte delle nuove ri-generazioni ed ero curioso di sapere la verità su quei
pellegrini che si dovevano imbarcare per raggiungere le isole del Puntino Nero. Erano
 le 18 di quel primo dicembre, era buio pesto a Pochino, ma pensai anche a Nopolis
e Gevecchia, sempre ai bordi del nostro mediterraneo.
Il porto mi era apparso subito come una immensa sala da ballo, illuminatissima, piena,
 affollata di ombre immobili, in silenzio, gli sguardi verso il mare che rifletteva
quelle lame fluorescenti di luci inutili e spropositate e pareva  rallegrarsene. Col mio
monopattino irruppi tra centinaia di corpi, ma erano davvero tanti e di più, perchè
quel piazzale granitico poteva contenerli e, dopo, li sfiorai tutti, quegli esseri umani,
abitati da donne, da uomini, giovani e meno giovani, ma non vidi bambini, e questo
non mi dispiacque.
A primo acchito non mi sembrava ambiente per loro, i pargoli.
Mi mischiai, come si dice, alla folla, sentii i rumori del silenzio, dei bisbiglii, parole
 afone ma anche il rumore delle scarpe, dei sacchi a pelo trascinati su carrozzine
 scalcinate, sentivo gli umori e gli odori della pelle, questi sì un po' pesanti ma non
ci facevo caso.
Era come un cerchio dantesco ridipinto, dalle pennellate discontinue e confuse.

Mi incuriosirono, invece, alcuni cartelli, pensai vecchi di centinaia d'anni, che
dicevano -
mamma sono qua, sto partendo – eccomi, ci sono anch'io! --viva il puntino nero,
 siamo 
felici! --
andiamo in paradiso! --viva il nostro capitano! -- la vita è bella!...--
E chi è il vostro capitano
? domandai
Forse capitan Nemo! -   in coro
Beati voi – andavo dicendo – ma la nave dov'è?
La nave sta arrivando, è dietro quelle nuvole, fra poco allungherà le sue braccia

 e ci
 porterà tutti a bordo. che bella che è la  felicità!
Ma la nave come si chiama?
Felicità, l'abbiamo appena detto!
Ma che ore sono?
E' la ventesima ora e partiamo alla ventiquattresima, in piena notte.
Allora, buonanotte!

Gavino Puggioni



Nessun commento:

Posta un commento