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giovedì 22 marzo 2012

RICORDANDO I SENTIERI DELL'INFANZIA


Di Gavino Puggioni 
Camminando in quelle radure, una volta selvagge, mi sembrava di attraversare la parte estrema di un mondo sconosciuto, oltre il quale viveva il nulla. Il silenzio, il cielo, il mare che, all’improvviso, ti abbracciavano, ti costringevano a pensare e a non pensare, tanto forte era l’emozione di trovarti da solo, in cima a quelle colline, che sapevano d’altri tempi. C’era e c’è ancora una chiesetta, arrampicata, che doveva servire alle preghiere delle mogli, delle sorelle, delle mamme, tante, di quei minatori, che entravano in quelle bocche all’alba e ne uscivano quando il buio era padrone di tutto. Scendendo per la strada, tortuosa e fangosa d’inverno, asciutta e polverosa d’estate, si aveva la sensazione, comunque, di dover raggiungere un luogo amato da pochi, ma di un amore viscerale, coinvolgente, forse struggente.
Era, doveva essere un parco romantico, accarezzato o violentato, ma solo dai venti e dalle piogge. Semmai, calpestato da amanti, degni di quella natura rigogliosa e orgogliosa nei suoi splendori. E dopo, più giù, c’era e c’è il mare, comandante assoluto di quelle insenature, di quelle rocce d’argento, sopra le quali quella stessa natura era abituata ad adagiarsi.
C’era il villaggio, che accoglieva quelle poche famiglie che avevano il coraggio di abitarvi, circondate da rumori cupi e continui, altalenanti, ma che, ormai, facevano parte della loro vita.
Quel villaggio, umano, ora, non c’è più, è stato cancellato dai tempi moderni.
Non sono rimaste neanche le più piccole tracce, per rimandarle, come si dice, alla memoria dei posteri.
È rimasta, nonostante tutto, la grande testimonianza della miniera, ischeletrita, ovvero l’impalcatura di legno e ferro, da dove, prima, si accedeva alle entrature di ciascuna galleria.
Il mare, tranquillo o spumeggiante per il maestrale, era una presenza quasi rassicurante; si rispecchiava sempre nel solito quadro, niente lo intimoriva, niente lo sporcava, se non la ruggine di qualche carrello vecchio e sfasciato. Lo stesso mare, però, pareva lamentarsi di quello che poteva dare, e in abbondanza, ma che nessuno prendeva. I suoi frutti erano lì e si beavano nel loro elemento, giocando con le mareggiate e abbattendosi sui litorali di pietre levigate. Quei pochi, pochissimi arditi che osavano pescare, non erano nemmeno del posto.
Arrivavano, magari di notte, e, alla luce di qualche lampara, scagliavano due o tre bombette e il gioco era fatto. Il pesce, stordito, veniva a galla e si faceva prendere nel sacco, anzi nei sacchi di juta, docilmente e senza spargimento di sangue.

Nel villaggio, tuttavia, si viveva di una vita normale, fatta di sacrifici, di attese, di emozioni e di dolori mai ripagati. Le giornate erano tutte uguali, compresa la domenica, anche se questa doveva essere dedicata al riposo o alla preghiera. Quella grande madre, che era la miniera, rigurgitava continuamente i suoi tesori che dovevano essere colti e portati via, in altre terre, in altre regioni. L’arricchimento era per quella società che gestiva, da lontano, l’affare; l’impoverimento era per tutti, compresi quelli che venivano mal pagati per frugare in quelle viscere profonde e portar via più materiale possibile. E questo impoverimento riguardava anche il territorio, con le sue montagne spaccate, scavate, fatte a pezzi, così che anche l’erba non riuscì mai più a crescervi. Vi crebbero, invece, le malattie da quelle polveri e chi ne fu colpito ebbe a pagare fino alla fine dei suoi giorni.
Le spiagge senza sabbia, colme di ciottoli rotolanti, grigi, bianchi, neri, e striati anche di rosso arrugginito, solitarie, erano sempre uno spettacolo da vedere, solitarie o al massimo con qualche branco di buoi e cavalli, che vi andavano per fare la loro indisturbata passeggiata.
Ti invitavano, quando il mare era una distesa d’acciaio, a meditare, a proporti in maniera quasi primordiale, allargare le braccia, respirare a pieni polmoni e spaziare nell’infinito di quell’orizzonte che credevi di vedere, ma era solo un miraggio. Anche i gabbiani sapevano di essere soli, tant’è che i loro giochi, le acrobazie, i loro incroci su quelle acque sembravano più liberi, ispirati a quello che li circondava, in una tavolozza di colori, sempre sgargianti ma naturali.
Ora, oggi, adesso, a distanza di tanti lustri, quella terra, chiamata Argentiera, è un cumulo di quello che è stato e di quello che vorrebbe essere. Un gran pasticcio, il cui attore, sempre l’uomo, ha stravolto ogni cosa, ha dimenticato il rispetto di quel suolo, sopraffacendolo di intuizioni orride, cercandovi una soluzione mai arrivata, continuando a pasticciare ed offendere quel lembo di ricordi intimi, di uomini e donne che hanno sofferto e gridato inutilmente nel silenzio.
Ancora, e per una volta all’anno, per due lunghi mesi, è meta di popolazioni incivili, arrivati da altri mondi incivili, che vogliono incivilizzare quello che loro non appartiene, tanto, dopo, fanno rientro nelle loro stesse inciviltà. Quel pezzo di terra continuerà a lamentarsi, anche se continuerà ad offrirsi con le sue bellezze ormai contaminate, sporcate e vituperate da tutte quelle imprese di individui post-moderni, incapaci di sentire, di vedere, incapaci di amare ciò che la Natura aveva loro regalato.

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