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Questo blog è di Danila Oppio, colei che l'ha creato, e se ne è sempre presa cura, in qualità di webmaster.

venerdì 30 marzo 2012

L'IMPIEGATO

di Gavino Puggioni


Prima che vi presenti questo personaggio dal punto di vista interiore,
dell’anima, ve lo voglio descrivere da quello esteriore, assieme al
suo ambiente, in cui viveva da oltre dieci anni.
Era impiegato nell’ufficio postale di una città di provincia e svolgeva
le sue mansioni con meticolosa precisione, tanto che non pochi
ne rimanevano meravigliati. Meravigliati, si, perché era un ubriacone
di prima categoria. Ma di questo parlerò più avanti. Scapolo, viveva
in una pensione, nella lunga via La Marmora dai cui abitanti era conosciuto a
un miglio di distanza. Era, come si dice, un bonaccione e faceva amicizia
con tutti, anche coi bambini, che approfittavano della sua briachezza
per deriderlo, tra le risate generali. Vestiva sempre di un
completo scuro, di lana o leggero, e mai, per nessun motivo, durante
l’estate o l’inverno, cambiava quell’abito che aveva indossato il primo
giorno della nuova stagione. Non gli importava se diventava sudicio
o lucido; a lui interessava la camicia bianca, con colletto inamidato,
che faceva spicco fra tanto sudiciume. Il suo capoufficio gli aveva
detto e ridetto di presentarsi più decente ed ordinato, ma lui
rispondeva:
- Si, si, va bene! -
Ma i va bene andavano sempre male.
Aveva i capelli castano-scuri, brizzolati e impomatati di una speciale
sostanza oleosa, di cui i colleghi non riuscirono mai ad indovinare
l’essenza. Gli occhi erano fortemente celesti e a chi lo guardava,
sembrava un uomo continuamente malato e pauroso di non so cosa.
Nel complesso, però, quando non era ubriaco, tutti lo giudicavano
un uomo qualunque, comune, come tanti se ne incontrano per la
strada. E allorché un suo conoscente o amico gli manifestava la propria
soddisfazione per averlo incontrato sano e normale, egli ne gioiva,
esclamando con un sorriso più forzato che naturale :
- Si, si, va bene! - e si distraeva.
La sua pensione, una camera non tanto ampia, ma squallida e tenebrosa,
si trovava, come ho già detto, nella via La Marmora, una tra le più
antiche della città, e perciò vi dimoravano molte, moltissime famiglie
di anziani, piuttosto chiassose e civettuole. Dicevo della sua stanza,
che si trovava all’ultimo piano di un vecchio, decrepito palazzo, dalle
scale ancora in legno e assi pericolanti. Un armadio tutto tarlato,
un lettino logoro e una panca con due sedie mezzo sfondate, erano il
mobilio dell’impiegato Benedetto  (così si chiama il mio personaggio).


Il soffitto era basso e le pareti scalcinate lasciavano intravvedere,
in certi punti, la muratura e l’umidità penetrante. Qualche immagine
sacra pendeva sulle pareti, dove si facevano notare anche gli arnesi
per la barba, ahimé, arrugginiti e impolverati.
In questa pensione viveva da sei anni e ormai vi s’era affezionato
tanto da rifiutare reiteratamente un altro alloggio più decente e consono
al suo grado sociale. Diceva che era vecchio e che di una nuova
casa non ne faceva proprio niente. L’impiegato  non aveva ancora
quarant’anni, sebbene ne dimostrasse molti di più, a causa del suo
anormale modo di vivere. In ufficio faceva l’aiuto cassiere e si comportava
egregiamente e in maniera encomiabile nel disbrigo delle
pratiche, che richiedevano una certa attenzione e pazienza. Questo,
però, succedeva quando non era in preda ai fumi di Bacco ed é proprio
qui che incomincia la triste storia di Benedetto, aiuto cassiere
nell’ufficio postale di una città di provincia.
Ogni mattina, puntualmente, sul registro delle firme, spiccava
quella sua per varietà di ghirigori e raggiri calligrafici. Devo dire che
aveva un orgoglio che, se ferito, lo portava all’esasperazione e non
ammetteva che si facessero delle obiezioni od osservazioni al suo operato,
poiché era fermamente convinto della sua abilità e serietà sul
lavoro. Sicché alla firma ci teneva, cosi come all’ora e spesso, accanto
al suo nome, si poteva leggere: ore 7. 50, ore 7.48, ore 7.55….
Nei primi tempi Benedetto si comportò sempre impeccabilmente,
tanto che era stato promosso al grado di vice-cassiere. Ma più
in là, dopo un paio di anni, era successa qualcosa che l’aveva cambiato
da capo a piedi, facendo di lui un essere insensato e privo quasi
della ragione. Andava al lavoro come una lampadina a lunga inter
mittenza. Il che aveva dato pensiero al suo capoufficio che riceveva
non poche rimostranze per lo stato degenere con cui serviva e si presentava
al pubblico. Non molto più tardi, tra i suoi colleghi si sparse
la seguente storia, che, alla fine, egli stesso ammise.
Vicino a casa sua abitava anche la proprietaria di
quell’appartamento e lui si era perdutamente innamorato della figlia.
Non vedeva mai l’ora di uscire dall’ufficio, per correre verso la pensione
e vedere Rosalia per parlarle, per invitarla e per corteggiarla.
Era continuamente inebriato di quella ragazza, la quale, assai più
giovane e forse ingenua, gli dava retta, ascoltava quel che confusamente
le diceva, dando la sensazione di ricambiare e di godere quei
momenti. L’impiegato era sicuro che l’amava e tante volte, sia nel lavoro
che per la strada, lo si vedeva gioire e sorridere, contento e
spensierato. Pensava in maniera morbosa a Rosalia e non se ne staccava.
E nonostante ciò, in ufficio le cose procedevano col massimo
ordine e con la dovuta compiutezza.
Nessuno dei colleghi sapeva di codesta avventura, ma, quando lo
seppero, molto malignamente e sarcasticamente, lo pungevano e lo
invitavano a svelare il nome della sua colombella. Egli, allora, cambiava
volto, diventava triste e si ingoiava tutti gli spropositi di quegli
esseri gelosi. Lo prendevano in giro, poveraccio, fino al punto di fargli
sbottare frasi supplicanti ma irate:
- Smettetela!, smettetela! Ma che gusto ci prendete? -
E quelli ridevano e si divertivano un mondo.
Tale comportamento a lui fece tanto male che, il giorno dopo, Rosalia,
vedendolo rabbuiato, seduto nel letto, gli si avvicinò e gli chiese
cosa avesse. Allora Benedetto si alzò contento e, facendo finta di dimenticare,
rispose affannosamente che non aveva niente.
- Niente!... niente!... - e nel cuore ne gioì, perché aveva sentito
quella ragazza preoccuparsi di lui, che l’amava!
In quei momenti dimenticava tutto, anzi aveva imparato a non
dar ascolto a ciò che dicevano i colleghi, i quali non volevano porre
fine alle loro satire taglienti. Pareva avessero con loro un ”buffone”
scemo e fossero obbligati a tormentarlo e a provarne godimento. Ed
egli ingoiava amaramente e diceva fra se:
- Screanzati! Buffoni che siete! Porci senza catene! -
A casa taceva e se Rosalia lo sorprendeva pensoso, si trasformava
tutto di un tratto, assumendo la più bella cordialità. Così visse per
parecchio tempo, tra la derisione degli uni e l’illusione dell’amore di
Rosalia, la quale, forse, sin dal primo incontro, aveva avuto pietà di
quell’uomo solo e aveva deciso di fargli compagnia, non pensando
minimamente a ciò che quello pensava di lei. Ma un brutto giorno,
l’impiegato si ammalò e la sua malattia diventò si grave che lo ricoverarono
all’ospedale di Santo Spirito. Durante la degenza, tutti i colleghi
andarono a fargli visita e a chieder notizie sulla sua salute.
Venne anche Rosalia con la madre e lui ne fu immensamente felice.
Avrebbe voluto saltare sul letto e gridare che era sano, guarito,
forte, ma non poteva neppure muoversi e dové accontentarsi di sorriderle
e guardarla con quegli occhi, sprofondati nelle oscure occhiaie.
Quando le due donne stavano per andarsene, egli voleva trattenerle;
si muoveva, si sforzava, ma poi si accorgeva di non aver
niente da dire. Strinse loro la mano, accompagnandole con lo sguardo
fino alla porta del corridoio. Provò, Benedetto, una forte, indimenticabile
sensazione e questa sensazione non l’ebbe più a provare, perché Rosalia,
a trovarlo, non venne più e lui se ne preoccupò.
Il medico curante, dopo tre mesi circa di permanenza
all’ospedale, lo congedò, facendogli gli auguri e sorridendogli.
Era tornato alla sua abitazione e aveva ripreso il quotidiano lavoro.
In quei giorni di convalescenza, i colleghi non gli parlarono e non
lo derisero. A casa non aveva trovato Rosalia e sua madre, perciò,
alla sera, egli usciva a far quattro passi in piazza, oppure vicino al ponte.
Dopo quindici, sedici giorni, mentre camminava su per la salita che
porta all’ospedale di Santo Spirito, incontrò la madre di lei e subito si
fermò, chiedendo affabilmente di Rosalia, dove fosse e perché. In un
primo momento quella signora si trovò imbarazzata, ma poi dovette
dire che sua figlia si era sposata ed era andata ad abitare molto lontano,
felice e contenta come una ragazzina.
Il nostro ne rimase costernato e colpito, delineandosi nel suo
scarno viso l’impronta amara del dolore, quasi dello spavento.
(Nel momento stesso, erano passati vicini due suoi colleghi)
Sposata?! Andata via?! Lontano?! Rosalia!
Si sentiva morire, voleva piangere, diventò nervoso, contrasse le
mani, ed ebbe brividi. Salutò la donna e corse a rifugiarsi in quella
sua stamberga . Si mise a letto, ma restò sveglio, in preda alle allucinazioni,
ad atroci dolori che tormentavano la sua schiena e le fragili
gambe. Guardava nel lurido soffitto e pensava a Rosalia, al suo amore,
alla propria illusione, alla sua bellezza. Voleva alzarsi e correr di
fuori, come un pazzo, cercarla, chiamarla a tutta voce, non finir mai
di correre. Ancora brividi di freddo si alternavano a movimenti convulsi
delle sue braccia e delle sue gambe.
Ma ecco che sentì bussare, che vide la porta aprirsi ed entrare Rosalia!
Com’era bella!
Lui si alzò, le andò incontro, le strinse le mani e chiuse la porta.
Poi si sedettero sul letto e conversarono del loro amore, delle loro
pene, dei loro progetti. Guardava Rosalia con irrefrenabile contentezza
e rideva, rideva, anche scioccamente. Cosi faceva anche lei.
Com’era bella!
Diceva di aver pianto quando lui era all’ospedale, di aver atteso
con impazienza il suo ritorno, che si sentiva tornata alla vita ora che
l’aveva rivisto, che era pronta a sposarlo. Lui balzò in piedi, abbracciò
l’amata e le promise tutto di se e per sempre.
- Ti porterò in una nuova casa e là vivremo felici coi nostri bambini,
fino a che Dio ci permetterà! Saremo felici, Rosalia! -
E la strinse, la strinse forte a sé, quasi per paura che gliela portassero
via.
- Rosalia! - gridò disperato e frastornato da quel sogno.
Dopo si addormentò, per non svegliarsi che un quarto d’ora prima
delle otto del mattino successivo. Sussultò, levandosi. Provò paura,
quando s’avvide che correva il rischio di arrivare in ufficio in ritardo.
Si vestì di gran fretta e quella mattina si lesse ancor più chiara
la firma e l’ora: Benedetto B. ore 7.57.
Da allora in poi, egli mutò come da notte a giorno e la sua vita assunse
tutti i lati della insensatezza e del disordine, sia fisico, che morale,
di cui avevo parlato all’inizio del racconto.
Quella mattina, i colleghi, vedendolo fiaccato, con i capelli arruffati
e assai mal vestito, ne ebbero quasi pietà e lo salutarono con rispetto.
Ma, verso mezzogiorno, chissà perché, quasi per concorde
presa di posizione, quelli sbottarono in una fragorosa risata e lui si
spaventò. Lo guardavano e ridevano di getto, tormentando la povera
anima del loro amico. Il quale, dapprima, cerco di resistere, ma, alla
fine, si accorse che non ce l’avrebbe fatta. Si voltò di scatto e pareva
volesse erompere in un solenne rimprovero, si da farli ammutolire;
invece, i nervi, troppo a lungo tirati, non gli permisero che di dire
soltanto :
- Beh! - ma lo disse cosi forte, che per un attimo si fece silenzio.
Poco dopo, però, uno di loro, che l’aveva visto la sera precedente,
raccontò di avere incontrato B. per la strada, fermo con una vecchietta
malconcia.
- Quella é la fidanzata!!! - e scoppiarono in una nuova rumorosa
risata. Il nostro avrebbe preferito morire o non esser presente; in un
accesso di nervosismo, si precipitò nell’ufficio del direttore e chiese
di uscire. Ottenne il permesso, mentre quegli ”animali” non smettevano
di angariarlo. Si trovò all’aria libera, finalmente. Ma ora le
gambe non lo reggevano, aveva forti capogiri e il solito male alla
schiena. Gli occhi s’erano annebbiati e camminava inceppando ora
su un sasso, ora sul gradino di una casa. In molti si giravano, mentre
alcuni bambini gli andavano dietro, divertiti. Appena egli se ne avvide,
spalancò gli occhi, sorrise a bocca aperta, tanto che i curiosi
fanciulli ne ebbero paura ed entrò, incosciente, in una bettola. Qui
s’assise e l’oste, come trattando un cliente abitudinario, portò sul tavolino
una bottiglia di vino e un bicchiere. Benedetto ne fu molto
contento e ringraziò smanieratamente il suo servitore. Brontolava di
tanto in tanto, si guardava attorno e dilatava le pupille e pareva meravigliarsi.
Bevve un primo bicchiere di quel vino, facendo roteare la
lingua in segno di soddisfazione.
- E’ buono il mio vino, eh? - gridò il locandiere, con voce rauca e
profonda.
L’impiegato non rispose subito, perché ne tracannava un altro e
un altro e poi un altro ancora. Alfine si alzò ed esclamò:
- Si, si, va bene! - ed uscì dopo aver lasciato delle monete in cima
alla bottiglia.
Gli avventori presenti, mezzo briachi anche loro, ridacchiarono.
Ed ora dove andava? Pareva dirigersi verso casa, invece, dopo un
paio di minuti, lo si vide di fronte all’ospedale di Santo Spirito, che
guardava, incantato. Guardava la finestra della camera dove era stato
ricoverato e dove, per l’ultima volta, aveva visto quella Rosalia.
Piangeva e chi lo vedeva si voltava. Come un pazzo, fece ritorno a
casa e si mise a letto, delirando. Cantava e piagnucolava come un
bambino, si alzava all’improvviso e si ricoricava, fino a cadere in un
sonno profondo. Bussarono alla porta e si svegliò di soprassalto. Aprì
e si trovò di fronte cinque dei suoi colleghi, che venivano a presentargli
le scuse per il loro comportamento. Li fece entrare e accomodare,
chi sul lettino, chi sulla sedia, chi sul traballante tavolo. Egli
ne fu assai contento e li perdonò volentieri. Poi parlarono del tempo,
di teatro, delle ballerine e della musica. Si ascoltavano a vicenda,
mentre qualcuno della compagnia rimaneva fortemente attratto dalla
vista della povera pensione e dei luridi arredi. Ne rimase cosi impressionato
che non poté trattenersi dal chiedere:
- Ma, Benedetto, perché non cambi casa? Non vedi che qui ti
ammali di più e ne puoi prendere un malanno più grosso? -
- Giusto! - annuirono gli altri, all’unisono.
- No, miei cari amici! - rispose dopo essersi mirato e rimirato - no,
no, io sto qua e non mi muovo. Io morirò qui!
E quelli insistevano che doveva allontanarsi, che altrimenti sarebbe
diventato tisico, che non avrebbe potuto più avvicinare una persona
e tante, tante altre cose.
- No, noo, no-o-o! - gridò come un forsennato e si svegliò.
Anche questo era un sogno.
Povero Benedetto! Si levò, si stiracchiò e le ossa scricchiolarono
come martelletti continuamente battuti e fu preso da capogiro. Si
poggiò all’umida parete e tornò a piangere; graffiò il muro e si lamentò
di fronte alla icona della Beata Vergine. Giunse le mani, disperato.
Varcò la porta di ingresso e si avvicinò a quella, dietro la
quale, un giorno, abitava Rosalia. Origliò, guardò dal buco della serratura,
voleva entrare e fece pressione sul legno. Ma, come se avesse
ricevuto una tremenda scossa o qualcosa di simile, si staccò e si buttò
a precipizio per le scale, gridando il nome di lei.
Per fortuna, non incontrò nessuno e di questo parve soddisfatto.
Corse fuori, lanciò sguardi furiosi qua, là, verso la sua stanza e attraversò
la strada. Entrò in una bottega di giornali, ne comprò un fascio
e si precipitò alla bettola, mentre i pochi passanti, in quell’afoso pomeriggio
di luglio, lo seguivano imbambolati. Entrando in quel locale,
vide, dietro il banco, una donna. Le si accostò, sorridendo:
- Rosalia, sei qui? Finalmente ti ho trovata!.... Rosalia, non mi conosci?
Non ricordi?.... -
Quella chiamò subito un signore, il quale, accortosi dello stato del
nuovo arrivato, riuscì a mala pena a convincerlo che lei non era Rosalia.
- Si, si, va bene! - ed uscì, dopo aver comprato una bottiglia di liquore.
Per la strada si fermava a scatti, stava soprapensiero, si voltava a
sinistra e a destra e poi continuava. Vicino al portone di casa trovò,
seduta sul marciapiede, una poveretta, molto giovane, che gli tendeva
la mano. Benedetto si fermò, la guardò fisso negli occhi e ne ebbe
compassione. Contorse le labbra e, sfilando un giornale dal suo pacco,
lo diede a quella disgraziata. Salì di corsa a casa, poggiò i giornali
sul tavolo e si mise davanti la bottiglia di liquore.
- Aah! - sospirò e si sdraiò con le braccia sul tavolo e parve assopirsi.
E s’assopì per davvero, poiché si destò soltanto alle otto e mezza
di sera. Ma non stava bene. Ricominciò a piangere. Con le mani giunte,
cadde in ginocchio, sotto la icona.
- Rosalia!.... Rosalia! Dio mio, aiutami! Porci!... Disgraziati! gli
uomini!... - si mise a imprecare e, afferrata la bottiglia, ne trangugiò
quasi la metà.
Cadde, afflosciandosi come un sacco vuoto. Delirava, il meschino,
e parlava sconnessamente e batteva i pugni sul pavimento, bagnato
delle sue lacrime. Dopo circa un’ora di straziante pianto, riuscì a portarsi
sul letto e ad addormentarsi.
Benedetto mancava dall’ufficio già da diversi giorni e il suo stato
di nervosismo peggiorò fino a divenire isterismo del tutto morboso.
Non riusciva a dominarsi e a parlare con nessuno. Il suo viso rassomigliava
a quello di uno, condannato improvvisamente e innocentemente
 alla pena capitale; gli occhi gli erano rimasti nell’espressione
pietosa e, allo stesso tempo, paurosa di chi ha ormai perso ogni speranza
di vita terrena.
Al lavoro non aveva menomamente pensato, perché era stato in
perenne briachezza, che si era andata trasformando in malattia cronica.
La sua camera era in costante disordine, nessuno se ne curava,
come nessuno si preoccupava di lui.
Stava per sorgere il decimo giorno della sua assenza, quantunque
egli non se ne rendesse conto. E quella mattina, si alzò assai presto,
ma non valse a niente, che si sentiva molto male e non stava nemmeno
in piedi. Chi lo avesse visto allora, l’avrebbe di certo paragonato
ad uno spauracchio vestito. Le gambe, coperte da radi peli, erano
piene di acciacchi e tremavano come trema, a volte, il viso di un
bambino ormai sicuro di prenderle dalla mamma. Le braccia, scarne,
erano abbandonate al proprio peso. Non aveva la forza di portarle su
e servirsene. Il viso era pallido e negli accessi diventava livido e a
chiazze rosse, come di sangue pestato e lui era incosciente. Abbandonò
il letto e fece in tempo a sedersi, stava cadendo. Come se avesse
ricevuto un consiglio, spostò la bottiglia di liquore e sorrise, ma di un
sorriso duro e beffardo. Strinse le labbra e le allargò, quasi soddisfatto
di aver vinto la battaglia, la tentazione dell’alcool. Ora B. era incantato
e nella debole luce dell’alba, il suo corpo, contro alla parete,
pareva piuttosto disegnato che reale.
Dal piccolo finestrino che dava sulla via Elle filtrava quella luce e
la stanza pareva goderne. I muri scalcinati presero un colore gialliccio,
quasi tisico, e la icona si illuminò a metà, dando alla Beata Vergine
un senso più profondo del suo mistero. Il letto rimaneva avvolto
nel buio. B. guardava verso la porta, resa anche essa pallida e pareva
inseguisse non sò quale misteriosa musica, che lo affascinava e
lo trascinava. Sognava e nel sogno rivide se stesso, in piena giovinezza,
quando, spensierato e allegro, scorrazzava per le camere dei
genitori, venutigli a mancare in tenera eta. Rivide la madre, il padre,
i suoi amici di una volta, rivide tutti i quadri meravigliosi della sua
gioventù e se ne inebriò. Ma ecco che gli ricomparve Rosalia. Ne fu
scosso, si destò sbuffando e grattandosi il capo.
- No, no, non voglio! -
Voleva alzarsi e camminare, ma non vi riuscì. Il coraggio lo aiutò
e, con estremo sforzo, riuscì a porsi in piedi.
Il suo movimento, però, causò la caduta dal tavolo della bottiglia,
che fece un tonfo sordo e monotono. E lui se ne terrorizzò a tal punto
che emise un urlo, di paura. In quel rumore secco egli aveva ravvisato
l’intenzione di qualcuno che volesse entrare, che volesse Dio solo
sa che cosa, che volesse ammazzarlo!
A quest’ultima idea, infine, si aggrappò come un forsennato e
gridò, gridò fino ad esaurimento del fiato. Corse, Dio sa con quale
forza, alla porta e, furibondo, l’apri e...... non vi trovò nessuno!
Sorrise e si affacciò nel pianerottolo, da basso. Udì dei rumori e ne
tremò. Ritornò indietro, si rinchiuse e si avvoltolò nelle coltri del lettino.
Un nuovo accesso isterico l’assaliva e, delirante, si copriva e si
scopriva, sbuffando e guardando, con gli occhi lucidi, al soffitto, che
andava illuminandosi dei primi raggi del sole. Sentì come di uno
strano, sommesso vocio e tese l’orecchio.
Chi parlava? Chi era lì, con lui? Cosa facevano? Perché, perché lì?
Perché lo tormentavano?
Si alzò e si prostrò dinanzi alla Beata Vergine.
- Sei tu, che parli? Cosa vuoi? dimmi, dimmi, che il diavolo ti
porti, dimmi, cosa c’é? Perché sei quì? -
Si allontanò, con lo sguardo fisso alla icona, quasi terrorizzato di
essersi rivolto a Lei in quella maniera. Ricadde sul letto, privo di sensi.
Come per miracolo, rinvenne subito e, osservando l’orologio, pensò
all’ufficio. Era la prima volta che, dopo tanti giorni, se ne ricordava.
Ne ebbe un fremito e, accigliandosi, parve pentirsi e rimprovverarsi.
Si vestì del solito abito, si sciacquò il viso e si pettinò anche.
Come un uomo normale, attempato e sicuro di sé, uscì dalla pensione
e scese in gran fretta le scale rimbombanti. Varcato che ebbe il
portone, egli incontrò di nuovo la ragazza, che quella sera gli aveva
chiesto l’obolo e alla quale aveva dato un giornale. Stavolta non si
fermò, ma, dieci metri più avanti, si voltò, guardò a lungo la poveretta
e tremò tutto.
Le labbra gli si contorsero, le dita si contrassero.
Si avvicinò piano, con passo malfermo, pieno di paura, quasi andasse
incontro ad un nemico, sotto il cui piede era sicuro di cadere.
Portò la mano destra nella tasca e ne prese delle monete. Si accostò
a lei, quasi a sfiorarle il vestito con la scarpa e le porse i soldi. Benedetto
non si mosse. Rimase inchiodato e avvinto dagli occhi della
ragazza. La quale, ricevendo le monetine, era diventata, nel viso, paonazza
e vergognosa; pareva volesse ringraziare, perché muoveva il
capo e le mani, finanche le labbra. Ma non vi riusciva.
Poi, mentre B. stava per allontanarsi, ella, di scatto, si attaccò alla
manica della sua giacca e gli parlò, implorante e piena di lacrime:
- Signore, signore, non mi lasciate, non mi lasciate! Voi potete
aiutarmi, voi potete.... Ecco, signore, voi mi avete aiutato, perché.... -
si chetò e la sua voce andava esaurendosi.
Guardava quell’uomo e ne rimaneva tremendamente scossa. Pareva
volesse fuggire, rimproverarsi per quello che aveva detto, ma
un improvviso, breve lampo di gioia, balenò nei suoi tristi occhi e,
come prima, si aggrappò all’abito di lui, tirandolo a se, invocandolo
e piangendo.
B. non si ribellò e non poté non commuoversi, debole com’era.
Spinto da una forza pietosa, soprannaturale, ma allo stesso tempo
incosciente e indifferente, Benedetto portò la mano sul capo di quella
sciagurata e pronunziò queste parole:
- No, no, non tormentatevi, bambina mia! Perché, perché fate così?
Su, bambina, sollevati, non piangere!
Si, si, io ti aiuterò, non piangere, non gridare! Che Dio ti benedica!
Vieni, vieni, ti accompagno a casa mia!
Vuoi venire sù? io t’aiuto, bambina mia! -
La disgraziata, come ascoltando le parole del suo unico salvatore,
lo seguì e non pianse più.
- Ecco, entra, bambina mia; guarda, io sono povero, ma io ti voglio
aiutare; entra, va’, io torno subito! - disse B., accompagnandola
nella sua stanza e sbatté la porta.
Al centro della scalinata, al secondo piano, si fermò e restò immobile.
Si grattò il capo e scese il resto delle scale a precipizio. Fuori,
sollevò lo sguardo alla finestrella e si avviò dalla parte del ponte.
Non pensava all’ufficio e non vi andò.
Alla pensione, la tapina si trovò isolata e spaventata. Sentirsi sola,
in quelle condizioni, aggredita dalla paura, le procurò altre lacrime.
Si sedette sul lettino e attese il suo benefattore.
I suoi occhi, che vagavano per l’umida cameretta, si posarono
sull’immagine della Madonna e allora si alzò e andò vicina.
Non altro la colpì, solo lo sguardo di quella Beata Vergine, che
sembrava le parlasse e la benedicesse. Si accostò ancora e subito si
discostò, terrorizzata da quella vista, che sapeva tanto di realtà.
Riprese a tremare e si portò indietro, fino a cadere sul letto, piu
morta che viva. S’assopì e si svegliò quando sentì dei rumori. Restò
seduta, in attesa.
L’impiegato, briaco fradicio, saliva tentoni le scale e chiamava
aiuto. Sparlava e si sbatteva. Quando passò dinanzi alla porta di Rosalia,
vi si voleva scagliare, ma non osò, perché la sua protetta lo
guardava, estasiata e mezzo intontita.
Appena la vide, si scosse e le andò incontro, come ad una persona
sconosciuta, fissandola. Quella indietreggiò e si impaurì, si che si mise
a gridare e a coprirsi il volto con le mani.
- No, no, lasciatemi! -
Quella ragazza vestita di cenci e lagrimante, dal volto pallido e
fanciullesco, dagli occhi tanto belli quanto misteriosi, quella ragazza
emaciata e sparuta, dai capelli scarmigliati e lunghi, che lui aveva voluto
aiutare, ora gli appariva simile a un mostro, ad un animale che
si fosse a forza introdotto nella sua casa.
Finalmente entrò e si chiuse la porta alle spalle.
Lo sguardo di B. più animalesco di quello della povera creatura,
sputava fuoco e si incendiava sempre di più. La poveretta ne rimase
terrorizzata e gridò come una pazza, invocando pietà. Poi si buttò
nel letto e si coprì il volto col cuscino.
Come d’incanto, Benedetto non avanzò più. Rimase immoto,
fulminato.
Alla fanciulla, nel gettarsi sul lettino, erano rimaste scoperte, per
intero, le gambe e lui, vedendole, se ne inebriò, tanto da rimanerne
incantato. Si calmò, il suo sguardo s’ammansì, diventò simile a quello
dell’agnello e sorrise anche, non distraendosi da quella innocente
nudità. Sentendo silenzio, quella sollevò la testa e si voltò dalla sua
parte.
- Chi sei? - domandò B.
Ella si animò leggermente e si rizzò. Il suo volto, si vedeva, era
sfigurato e bianco; i capelli le cadevano sul viso, quasi a proteggerlo.
- Come!? Non mi conoscete? Non ricordate? -
- Rosalia!!!.... Rosalia! - esclamo B. e si buttò a braccia aperte verso
di lei.
Era cieco dall’alcool e disperato.
- No, no, lasciatemi! - urlò quella, che per poco soffocava.
- Non sono Rosalia!... chi é Rosalia? -
Benedetto si staccò da lei e non ascoltò più quello che diceva.
- Avete fame? - le chiese all’improvviso.
- Si, si, tanta! Ho fame! -
- Povera bambina mia! Hai ragione, si, si, mangiamo, mangiamo!
Come vi chiamate? - chiese B., dimentico nella mente.
- Ada! - e ricominciò a piangere.
- Ma perché, perché piangete? bambina mia! Mangiate, ecco, non
piangete più! Bambina mia, mangiamo! -
Passo così circa un mese, durante il quale l’impiegato si recò in
ufficio pochissime volte, adempiendo, però, quando vi si recava, con
precisione, ai suoi compiti, tra la derisione dei colleghi e
l’indignazione dei superiori. La sua vita era diventata sempre più
caotica e a lui non importava. Ritornava alla sua pensione continuamente
briaco fradicio, mentre Ada, tra il terrore e la compassione,
cercava di aiutarlo come meglio poteva e alle volte si rammaricava.
Si avevano diviso il letto, mettendo il materasso sul pavimento e
parevano comprendersi l’un con l’altra. Nessuno dei due, però, pareva
innamorato, sebbene sovente si abbracciassero, ma questo succedeva
durante le crisi isteriche e di sconforto, specialmente da parte
di lui, che in quella ragazza ravvisava vieppiù la sua Rosalia. Ma le
cose mutarono di colpo ed entrambi si separarono e non si incontrarono
più. Ecco come accadde.
Quella notte di ottobre, Benedetto aveva tardato più del solito a
rincasare. Ada, anche se nell’animo non sentiva alcunché di sentimentalmente
importante per lui, si era spazientita e, in preda a forti
attacchi di tosse nervosa, aveva incominciato a piangere e a delirare.
Si era portata vicino alla icona e pregava, pregava continuamente,
chiamando il padre e la madre e chiedendo, Dio sá perché, perdoni
su perdoni.
I suoi occhi erano diventati rossi come bracce e le guance livide,
come l’uva settembrina. Scarmigliata e con quei cenci addosso, si lamentava
del suo destino, della gente che incontrava, della vita che
non meritava.
Poi, in un accesso ancor piu morboso, si attaccò alla immagine,
finché non la strappò dalla parete, cadendo e scivolando sotto il suo
corpo.
Emise un grido disperato e cominciò a baciare la Madonna, sempre
invocando il nome dei genitori.
In quell’istante arrivò Benedetto, piu traballante che mai. Gli occhi
parevano fuori dall’orbita, mentre un copioso sudore solcava il
suo viso, dandogli un aspetto brutale. Aveva la bocca semiaperta e i
capelli arruffati e sporchi, l’avessero imbrattati a bella posta.
All’ingresso si fermò e rimase pressoché terrorizzato alla vista
della compagna, che, sdraiata per terra, continuava a piangere e a
baciare il volto della Beata Vergine.
Il diavolo, allora, si impadronì dell’anima di quel disgraziato e lo
trasformò tutto, sì che Ada, scorgendolo, si alzò di scatto e lo guardò
fisso. Sembravano due pazzi furiosi, desiderosi di annientarsi a vicenda.
Pareva che entrambi avessero capito che quello sarebbe stato
il loro ultimo incontro ed erano decisi a giocare l’ultima carta a salvaguardia
della propria incolumità.
Benedetto si portò avanti e poggiò le mani sul tavolo, senza mai
staccare lo sguardo dal volto della donna. Improvvisamente, venne
assalito da uno di quei tremendi attacchi. Fece una paurosa smorfia e
portò la mano verso la parte del cuore. Traballò e stava per cadere.
Poi, quel diavolo infernale, lo rianimò e, con quanta forza aveva in
gola, tempestò la poveretta di improperi e domande:
- Chi sei? Perché sei quì? Chi ti ci ha portato? Io non dò da mangiare
a donne come te! Tu sei una donnaccia!
Vattene!.... Io sono un uomo dabbene e tu sei una donna di strada,
guardati! guardati! Lurida!... Hai insozzato la mia casa, il mio letto!
Vattene!.... Ah! no, no, aspetta, aspetta! Chi sono quelli che stavi
chiamando? Perché? Per...... -
A quel punto, egli s’accorse dell’immagine sacra per terra. Diventò
ancora piu furioso.
- La Madonna! La Madonna! Disgraziata, non vedi cosa stà sotto
al tuo corpo? perché, perché non guardi?
donna disgraziata! Levati!... Vattene o io.... io ti ammazzo! -
La poveretta si gettò ai suoi piedi, carezzò le sue gambe, baciò le
scarpe e l’implorò, l’implorò finché non cadde priva di sensi.
Con lo sguardo da vincitore, pareva volesse gridare vittoria su
quel debole corpo, invece ne ebbe pietà e si commosse a tal punto
che pianse dirottamente, senza tregua.
- Su, su, bambina mia! .. - diceva tra un singhiozzo e la paura. -
No, non piangere, io ti voglio bene, io ti aiuto, bambina, levati, alzati,
che l’umido ti fa male! Vedi, vedi, anch’io piango, bambina mia, ma
tu no, no, non devi piangere! Ada! ... -
La disgraziata sollevò la testa e il suo volto assomigliava a quello
di una bestia ferita a morte.
Il seno sembrava scoppiare da un momento all’altro e lei non aveva
la forza di rizzarsi.
Le tese lui la mano e ci riuscì. Era la prima volta che si trovavano
involontariamente, uno di fronte all’altra, incoscienti entrambi e pazzi.
Benedetto si scostò abbastanza, ma ella tremò tutta.
- No, no, non ve ne andate! Io farò tutto quello che vorrete, farò
tutto, tutto, non ve ne andate! Nessun altro mi aiuterà e avrà pietà di
me! No, rimanete! -
Piangeva come una bambina e sudava allo stesso tempo.
- Ho perduto i miei genitori - parlava a scatti inconsulti - e non
ho parenti. Mi hanno abbandonata. Mio padre era impiegato, mia
madre era un’assistente del C.S. e sono morti, Dio sa dove e perché.
Io non volevo più vivere, volevo morire anch’io, ma dopo fui raccolta
da un uomo, che mi trattò come una schiava e poi mi abbandonò
per la strada. Sono passati tre anni da allora ed io ho vissuto sempre
sul lastrico, dandomi a questo e a quello, tutti porci e affamati, per
sopravvivere. -
A questo punto ricominciò a gridare.
- No, io voglio morire, non voglio più restare, mia madre, poco
fa, davanti a quella Madonna me l’ha detto, di morire, di morire, per
non soffrire e per non peccare! Mamma! - gridò alla fine e nei suoi
occhi si delineò la paura della morte.
Benedetto stava vicino alla porta, inchiodato e fulminato. Chissà
quale diavolo ve lo teneva.
Aveva ascoltato la compagna, con le lagrime, terribilmente spaventato,
quasi fosse stato lui il colpevole di tutta quella tragedia.
Tremava come una foglia e voleva avvicinarsi alla ragazza e consolarla
e proteggerla. Ma l’espressione dura e cruda, i continui morbosi
atteggiamenti, la disperazione della povera creatura, lo allontanavano,
pian piano, finché, a sua insaputa, non si trovò fuori della porta,
giù per le scale, per la strada, solo, per il mondo......
Ada non lo seguì, perché anche lei era paralizzata e quando
s’avvide di esser rimasta sola, al contrario, non si spaventò. Raccolse
la icona sacra, l’avvolse per bene e, uscendo, se la strinse al corpo,
piangente.
Dopo, Ada si trovò per le vie della città e pareva che nulla in lei
fosse accaduto, che non fosse stata sul punto di morire e di salvarsi
per sempre. Lontano dal centro, in un marciapiede della periferia, la
poverina si sedette e riprese la sua vita, nella quale s’era aperta e
chiusa una parentesi di morbosa felicità e di straziante dolore. Benedetto
B., il misero impiegato, fu visto spesso circolare demente, per le
strade cittadine. Alla fine cambiò vita, anche lui.
Fu trovato, in una notte di vento e di pioggia, esanime, vicino al
portone principale dell’ospedale di Santo Spirito.

Sassari, a casa di babbo, 10 agosto 1959

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